PERCHE’ HO ANCORA MALE?
Di Antonio Le Fosse, Fisioterapista a Torino
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Fin dall’infanzia abbiamo sperimentato il dolore.
Se ci pensiamo è un alleato protettivo per la nostra storia evolutiva, suona diversi campanelli d’allarme e ci mette in guardia dai pericoli.
Viene definito come un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole, dovuta ad un danno reale, potenziale o come la rappresentazione dell’effetto di quel danno (IASP).
Le fibre sensitive periferiche trasmettono informazioni sulla localizzazione e il tipo di lesione, il cervello le elabora insieme a numerosi fattori e decide se ignorarle oppure no, se c’è un pericolo, cosa rappresenta.
Le ignora le volte in cui un atleta ha un infortunio in campo, ma continua lo stesso a giocare oppure quando un soldato subisce una ferita, ma continua a combattere in battaglia.
In momenti più comuni quando dopo aver fatto sport ci ritroviamo con lividi o escoriazioni senza che ci ricordiamo come sia successo.
Nonostante il danno tissutale sia presente, il cervello ha deciso di non far “sentire” dolore in base al contesto di quel momento.
Danno non vuol dire sempre dolore (e viceversa).
Altre volte, invece, il dolore lo sentiamo: una ferita, una contusione, una bruciatura, un trauma. Il cervello dirige l’attenzione verso la zona di lesione, si è già attivato per gestire e risolvere il problema.
La biologia e il tempo fanno il loro effetto e il corpo (cervello) riesce a mettere tutto a posto con meccanismi e sistemi di cui a volte ignoriamo perfino l’esistenza.
E se io ho ancora male?
Il ruolo della Sensibilizzazione Centrale per la spiegazione del dolore cronico
Prendiamo in esempio una delle patologie croniche più diffuse e quella con la più alta spesa pubblica mondiale: la lombalgia.
Spesso i pazienti correlano il dolore alla schiena con delle lesioni alla colonna.
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Ma è davvero così?
L’incidenza che ernie discali causino realmente dolore lombare è dell’1-3% sul totale, decisamente basso. Un dolore lombare causato da problemi tissutali alla colonna si aggira intorno al 10-15% sul totale.
La degenerazione spinale è universale (come i capelli bianchi o le rughe) e si riscontra con frequenza nelle analisi di qualsiasi rachide adulto, così la possibilità di trovare alterazioni strutturali in pazienti del tutto asintomatici è molto alta. E questo accade non solo per la colonna vertebrale, ma anche per i tendini della spalla o per le strutture articolari del ginocchio o dell’anca, ad esempio.
Infatti il dolore può essere indicatore dello stato dei tessuti quando riusciamo a collegarlo ad una componente nocicettiva che lo sostiene, come in eventi acuti, subacuti o postoperatori, ma ha un ruolo limitato per spiegare la condizione di un paziente affetto da dolore cronico.
Capiamo quindi che sono altri i meccanismi predominanti che sostengono questa condizione, e nello specifico tutti quei fattori psicosociali, cognitivi e comportamentali che intervengono nell’elaborazione del dolore, come l’insieme dei pensieri, atteggiamenti e attitudini del paziente nei confronti della sua situazione.
Credenze errate possono facilmente portare ad un aumento della percezione dei sintomi e ad un ritardo nella guarigione: credere che il proprio corpo sia debole, non avere aspettative positive, credere che il movimento faccia male o che il riposo a letto faccia bene, sono pensieri distorti e negativi che sfociano in una iper-attenzione nei confronti della schiena e in comportamenti che evitano sempre più il movimento, abbassando la soglia di carico del paziente.
Vengono intrapresi atteggiamenti inadeguati di risposta al dolore che esasperano l’esperienza negativa e creano un pericoloso circolo vizioso.
I pazienti sorridono sempre quando faccio vedere questa immagine: le sensazioni, i pensieri e il proprio atteggiamento influenzano la percezione del mondo esterno. (immagine in alto)
Il nostro cervello, quindi, diventa “sensibile” durante una minaccia, aumenta la frequenza degli impulsi elettrici ed il numero di connessioni neuronali.
Questo è un meccanismo fisiologico e protettivo, ma se l’attività emozionale correlata al dolore rimane alta e la sensibilizzazione non regredisce, possono esserci alterazioni strutturali e funzionali in diverse aree cerebrali, alterazioni neuro-chimiche, così come un aumento delle connessioni tra le aree “pro-nocicettive”.
Questa condizione prende il nome di Sensibilizzazione Centrale che, se protratta nel tempo, si traduce in una percezione sproporzionata e anormale tra stimolo periferico e dolore.
Schema che mostra come i fattori psico-sociali possono contribuire al perpetuarsi del dolore. Tratto da Vlaeyen and Linton, 2000 (immagine a lato)
Il modello “BioPsicoSociale” e il ruolo del fisioterapista nella gestione del dolore cronico
“Non si può comprendere realmente una malattia in astratto, ma solo nel contesto della persona che ne soffre.” Robert Sapolsky
Abbiamo visto come le degenerazioni del nostro corpo sono del tutto normali e molto spesso asintomatiche. La nostra colonna, così come i tendini che sviluppano i movimenti e le articolazioni di tutto il corpo, si muovono e vivono, crescono insieme a noi e sono tanto forti quanto noi facciamo in modo che lo siano.
La relazione tra dolore e paziente secondo una visione biomedica, dove per ogni dolore deve corrispondere una zona di lesione, risulta parziale e non sufficiente a comprendere in pieno la condizione dei pazienti.
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Il primo obiettivo del fisioterapista è quello di intercettare coloro che necessitano di consulti medici specialistici prima di qualsiasi altro approccio, in relazione ai sintomi e all’esame obiettivo.
In tutti gli altri casi la valutazione del paziente avviene secondo un’interpretazione BioPsicoSociale, in cui piuttosto che focalizzarci sul dolore, o sulle immagini biomediche, si indaga il paziente in sé, cercando di capire quali possono essere gli ostacoli che ri-innescano le sensazioni dolorose e come possiamo fare affinché il paziente recuperi la sua condizione. Ciò che andiamo ad indagare è:
– Quali sono e in che misura agiscono i meccanismi periferici e centrali che sostengono lo stato del paziente.
– Qual è l’interpretazione che il paziente fa della sua condizione e quali sono le sue credenze in merito al dolore.
– Quanto lo stato del paziente influenza ed è influenzato dalla sua vita sociale, lavorativa, famigliare.
L’aspetto biologico viene arricchito dai fattori psicosociali, in questo modo si hanno informazioni dettagliate che rendono unico ogni paziente. Alcuni svilupperanno difficoltà nel controllo motorio, altri cercheranno di aggredire il dolore, mentre altri ancora saranno più remissivi, ogni paziente presenta caratteristiche che verranno affrontate nello specifico, a seconda dei propri obiettivi, cosicché potrà ricevere la terapia più appropriata di gestione e recupero dal dolore.
Schema del modello BioPsicoSociale in relazione allo stato del paziente (immagine in alto)
Cosa abbiamo imparato e cosa possiamo fare?
Dolore e lesione non sono sinonimi. Nelle problematiche croniche, soprattutto, le interazioni psicosociali hanno un ruolo predominante, influenzando le percezioni del paziente, la paura del movimento e la Sensibilizzazione Centrale.
Avere idee limitanti e sbagliate riguardo il proprio corpo e al dolore produce un aumento dello stesso, correlato ad un movimento man mano più scarso e ad una self efficacy sempre più limitata.
Spiegare al paziente la sua condizione, perché ha dolore e le cause multifattoriali dello stesso, è il primo passo verso il recupero. Da lì, far sperimentare al paziente la possibilità di una correlazione diversa e positiva tra il proprio corpo e il movimento.
Il dolore è utile nella misura in cui ci spinge a modificare il nostro comportamento, non è mai troppo tardi per decidere di affrontare in modo più consapevole la propria condizione: liberarsi dalla paura, allevare il movimento e migliorare la capacità di gestione personale, sono le caratteristiche principali da sviluppare in un paziente!
“Non solo impariamo, ma impariamo anche a cambiare gradualmente la nostra struttura concettuale, e ad adattarla a ciò che impariamo. E quello che impariamo a conoscere, anche se lentamente e a tentoni, è il mondo reale di cui siamo parte. […] Quell’”io” che decide è lo stesso “io” che si forma dallo specchiarsi su sé stesso, dall’autorappresentarsi nel mondo, dal riconoscersi come punto di vista variabile collocato nel mondo, di quella impressionante struttura che gestisce informazione e costruisce rappresentazioni, che è il nostro cervello.” Carlo Rovelli
Restiamo a Vostra disposizione per domande, chiarimenti o consigli in merito.